Pubblicato: 04-11-2011

Walkabouts: 'In 'Travels in the dustland' cantiamo il deserto dell'anima'


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Difficile che potesse nascere a Seattle, città verde e piovosissima, un disco come "Travels in the dustland" (in uscita nei negozi italiani venerdì). O anche a Lubiana, dove ormai da un decennio risiede Chris Eckman, songwriter e cantante dei Walkabouts. La scintilla, infatti, è scoccata nel Sahara, durante un'escursione che a Eckman ha ispirato un ciclo di canzoni di ambientazione desertica. "Uno scenario profondamente americano ma del tutto immaginario", spiega Chris a Rockol, "perché non volevo localizzare le canzoni in un luogo specifico. Che so, a 100 miglia di distanza da Las Vegas". Quasi un destino segnato, per una band che paesaggi selvaggi e incontaminati li evoca sin dal nome, ricavato da un rito iniziatico degli aborigeni australiani raccontato nell'omonima pellicola di Nicolas Roeg. "In realtà nessuno di noi l'ha mai visto, il film, a parte Carla (Torgerson, voce, chitarra e alter ego storico di Eckman) ai tempi del liceo. Fu mio fratello a suggerirlo come nome del gruppo, dopo avere visto il titolo su una locandina: ce ne serviva uno per un concerto che avremmo dovuto tenere di lì a poco".

Uomo di buone letture, nel libretto del cd Chris contestualizza i testi del disco con citazioni letterarie a tema: dal profeta Geremia a Paul Bowles (l'autore de "Il tè nel deserto"), da William T. Vollmann a Willa Cather, autrice di romanzi sulla frontiera e le Grandi Pianure americane. "Ogni volta che ho chiara in mente l'idea per un disco", spiega lui, "mi immergo nella lettura di libri e nella visione di film che possano aprirmi nuove prospettive sul mondo che ho deciso di esplorare". "Alcune di quelle pagine le ha lette anche a noi", aggiunge Carla. "Ci è servito per cogliere l'atmosfera che dovevamo evocare: la musica del deserto". Un deserto simbolico, oltre che geografico: "Sì, il paesaggio che evochiamo è anche psicologico, sociale, emotivo. Perché questo è un disco che parla di tempi disperati, di scelte che si restringono col passare dei giorni", dice Chris. E Carla: "Di inaridimento dello spirito. Del venire meno del dialogo, della dialettica del dare e avere. Oggi, in America, democratici e repubblicani non si parlano neanche più. Ognuno è intrappolato in un ingorgo. In America e nel resto del mondo".
Neanche Barack Obama è servito a sollevare gli spiriti: siamo tornati al punto di partenza? "E' triste che sia successo così in fretta, ma è così", sospira Eckman. "Il fatto è che probabilmente la situazione era molto più complessa di quanto credessimo". E così la speranza di "Every river will burn" lascia il posto alle tenebre di "No rhyme, no reason"..."La speranza è una sorta di tema che si trascina per tutto il disco, tra momenti di ottimismo e momenti di pessimismo. E l'album finisce su una nota ambigua: 'Horizon fade' non appartiene né all'una né all'altra categoria, sta nel mezzo". Carla è ancora più apocalittica: "Se una speranza deve arrivare, speriamo che succeda presto: abbiamo le ore contate".

Eppure, stavolta, la musica è molto diversa da quella di "Acetylene", l'instant record nato per reazione alla rielezione di George W. Bush. Molto più melodica, dilatata. Molto anni Settanta, con quelle chitarre younghiane e il timbro caldo di un organo quasi onnipresente... " 'Acetylene' è stato il nostro disco più diretto e spontaneo di sempre", ricorda Chris. "Non era un album emotivamente complesso, anzi l'emozione che trasmetteva era univoca: la rabbia per quel che stava accadendo in America. Stavolta le cose sono state meno facili. O meglio, un po' più complicate. Sapevamo cosa volevamo ottenere, ma negli arrangiamenti che abbiamo scelto ci sono sonorità a più strati, ottenute lavorando per addizione e per sottrazione. L'85 per cento del disco lo abbiamo realizzato molto velocemente, in una decina di giorni. Ma il difficile è stato arrivare alle versioni finali dei brani".
Magari hanno contato le distanze geografiche, tra Chris e il resto del gruppo? "All'inizio pensavo non fosse un problema. Ma poi quella distanza, che non era più solo geografica, si è fatta sentire", ammette lui con sincerità. "Fino al 2002, quando abitavo ancora a Seattle, ci si frequentava anche fuori dagli impegni di lavoro, in incontri spontanei e casuali che oggi sono diventati molto più difficili. Ma ci siamo accorti presto che certe incomprensioni sembravano più grandi di quanto fossero in realtà. Una volta entrati in studio, tutto è sembrato naturale. Nessuno era nervoso, tutti erano a loro agio". "Io sono andata a trovare Chris in Slovenia, prima di cominciare", racconta Carla. "E quando siamo tornati anche le prove che abbiamo fatto prima delle sedute di registrazione, nove in tutto, sono state interessanti e produttive: abbiamo ascoltato basso e batteria dialogare tra di loro, provare soluzioni diverse. Si è sviluppata una bella interazione, ci siamo ascoltati a vicenda". "E' questo che mi piace di questa band", annuisce Eckman. "La canzone è sempre la cosa più importante, nessuno forza la mano per far emergere il suo strumento o la sua personalità se non è funzionale alla riuscita del pezzo. Nessuno si lamenta che la sua parte è troppo semplice o monotona. Il bello dei Walkabouts è che è una band formata da musicisti capaci di ascoltarsi, di reagire alle mosse degli altri. Ricordo che durante le prove Glen, il nostro tastierista, è rimasto a lungo in ascolto senza neppure sfiorare il suo strumento. Due, tre, quattro volte: ero persino un po' preoccupato, mi chiedevo se fosse sveglio! E invece stava ascoltando attentamente, prima di decidere che cosa suonare. Ho spiegato in dettaglio ai musicisti qual era il pensiero sottostante alle canzoni, ma poi ognuno di loro ha fatto quel che riteneva necessario. Dopo aver ascoltato i provini, Glen mi ha detto che avrebbe suonato solo piano e organo: nessun sintetizzatore analogico come invece era avvenuto in 'Acetylene' ".
La presenza di Paul Austin, l'ex Willard Grant Conspiracy entrato in organico come chitarrista e coautore, ha mischiato le carte in tavola? "Sicuramente sì. La dinamica del gruppo è cambiata, ci sono più suoni da organizzare. Ognuno di noi ha dovuto fare un passo indietro, in un certo senso, e ritrovare il suo posto della band. E' una sfida che ci siamo voluti porre coscientemente, non volevamo continuare a fare le cose in modo automatico e routinario".

Dritti per la loro strada, sempre a margine del mainstream: anche oggi che gruppi come i Fleet Foxes riportano il folk rock in classifica e all'attenzione dei media? "I Fleet Foxes erano al lavoro sul loro secondo disco nel nostro stesso studio e nello stesso momento. E si capiva che erano sotto pressione, circondati da molte aspettative: tanto che mi risulta che abbiano hanno riregistrato l'album tre volte. Nel tempo che hanno impiegato a mixare una canzone noi avevamo completato tre quarti del disco! Quanto a noi, è vero: abbiamo sempre fatto le cose a modo nostro, col nostro ritmo. E nel momento in cui il genere Americana ha cominciato a rinascere avevamo già svoltato l'angolo con dischi come 'Devil's road' e 'Nighttown': il tempismo non è mai stato il nostro forte!". Carla: "Il fatto è che non seguiamo le mode e non seguiamo i consigli. Oggi siamo tornati proprietari di tutti i nostri master, a parte quelli di 'Scavenger'. Chissà, con le nuove modalità di distribuzione della musica riusciremo magari a guadagnare qualcosa. Siamo in ritardo di vent'anni, ma meglio che niente".

A gennaio in Italia per due date, i Walkabouts rimangono molto più popolari in Europa che negli States: come mai? "Credo che il motivo principale siano i rapporti con le case discografiche", sostiene Chris. "Con le etichette americane sono stati pessimi, mentre quelle europee (oggi il gruppo incide per la tedesca Glitterhouse) ci hanno sostenuto molto di più. Quando una situazione del genere si prolunga per sette o otto anni di fila diventa difficile tornare a casa". Anche se, "Travels in the dustland" ne è la conferma, l'universo artistico di riferimento del gruppo resta prevalentemente americano. "So che non suona molto rivoluzionario, ma mi piacerebbe rifare un pezzo di Bruce Springsteen prima o poi", confessa Eckman. "Ehi, io ne ho rifatta una!", ridacchia Carla: "Si intitola 'Happy' e non la conosce nessuno: me l'ha chiesta come regalo per il decimo anniversario di matrimonio Chris Peters, l'autore di alcune delle nostre copertine". Sarà su "Happy", dunque, che i Walkabouts metteranno prossimamente alla prova la loro riconosciuta abilità di "coveristi"? Chris sorride e scuote la testa: "No, no. Ti assicuro che se rifaremo una canzone di Springsteen non sarà quella".


(Articolo tratto da: http://www.rockol.it del 21 ott 2011)







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