Pubblicato: 22-02-2012

Intervista a Roger Daltrey, 'Tommy' 2012


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Roger Daltrey E’ Tommy.
Immortalato nel film che Ken Russell trasse nel 1975 dalla prima rock-opera degli Who, uscita sei anni prima, il cantante ha finito per immedesimarsi nel protagonista – almeno agli occhi dei fans. Il doppio album che procurò alla sua band il lasciapassare per la leggenda e a Pete Townshend quello per l’empireo dei più grandi autori di genere, regalò anche a Daltrey una dimensione più completa: il suo Tommy cinematografico, per quanto figlio di un’interpretazione da novizio, si sovrappose al bullo dalla voce potente che roteava i microfoni sul palco, rendendolo più artista che mero interprete. Oltre quattro decenni dopo, Roger insieme ai suoi No Plan B (Frank Simes e Simon Townshend alle chitarre, Jon Button al basso, Loren Gold alle tastiere e Scott Devours alla batteria) è tornato a calcare le scene per raccontare la storia del ragazzo cieco-muto-sordo diventato guru: è straordinario quanto il simbolismo che il personaggio e la trama incarnano per la nostra società sembri ancora fresco come una rosa. Roger sta per approdare in Italia per otto date dal vivo: lo abbiamo intervistato alla vigilia del suo mini-tour e ha parlato, tra l’altro, di Keith Moon, di un nuovo progetto con Townshend per un tour di “Quadrophenia” e di talent-show...


Ciao Roger, innanzitutto come introdurresti il concetto di ‘rock opera’ se il tuo interlocutore fosse un giovane nativo-digitale abituato a download, YouTube e ‘pay per’ e, quindi, alla logica dei singoli?
Una volta gli album erano qualcosa a cui dedicavi molto tempo per approfondirli e da cui, dopo una decina di ascolti, potevi ricavare un’impressione anche molto diversa da quella originale. Era un’esperienza abbastanza normale che accadesse questo. Prendeva tempo e attenzione. Oggi ovviamente non è più così. E quindi, se dovessi spiegare cos’è una rock opera, la assimilerei semplicemente alla musica classica.
“Tommy” all’epoca della sua uscita nel 1969 ricevette recensioni contrastanti all’inizio, ma poi fu un enorme successo di critica e pubblico: cosa dei suoi contenuti, secondo te, faceva presa sulla gente?
Penso che “Tommy” fosse particolarmente in sintonia con i suoi tempi. Non ho mai ritenuto che “Tommy” raccontasse la storia di una persona, ma che parlasse invece di tutti noi. Quando uscì fu accolto con scetticismo e molti reagirono in modo negativo. Ai tempi l’opinione pubblica e la critica potevano ritenere addirittura osceno che un disco popolare che andava in radio parlasse di qualcuno che era muto, cieco e sordo. Ma quella metafora serviva per guardare all’esterno con occhi diversi, per raccontare la società in cui vivevamo, le sue distorsioni e le sue oscenità.
Quanto Pete Townshend vi presentò “Tommy”, come funzionò? Sapevate cosa stava creando?
Quando rileggo le cronache rock del tempo, devo dirti che spesso trovo delle inesattezze, nel senso che non è che Pete se ne uscì con questa rock opera che portò alla band perché la suonasse: la genesi fu in realtà molto diversa, più organica, più partecipativa. Pete ci chiese cosa ne pensavamo dell’idea di raccontare di questo ragazzo che viveva e comunicava solo attraverso delle vibrazioni. All’inizio aveva solo un abbozzo di canzone introduttiva. Da quel punto di partenza in poi, aggiungemmo qualcosa e l’opera si sviluppò in maniera graduale, acquisì personalità. Ricordo bene, per esempio, che fu John a pensare al personaggio di Uncle Ernie, mentre la suggestione di Keith fu quella di Cousin Kevin, e così via.
Ma oggi che lo porti in tour, dopo averlo vissuto nella sua genesi e dopo averlo interpretato in un film, per te “Tommy” è soprattutto un album, un musical o un film?
Come ho detto prima, per me “Tommy” è veramente un’opera di musica classica. E’ così che va concepito: sia per la sua struttura, sia per la costruzione delle canzoni, sia perché è un lavoro organico. Io lo tratto e lo considero con lo stesso rispetto che di solito si riserva a un pezzo di musica classica di grande levatura.
Come ti sei avvicinato al personaggio quando hai interpretato “Tommy” nel film di Ken Russell del 1975?
Quando mi chiesero di farlo, ero pieno di dubbi. Non avevo mai recitato prima di allora, così cominciai a interpretarlo dentro di me. Sai, mi cantavo e mi recitavo le parti a bassa voce, mi mettevo alla prova. Ma poi si passò a trasporlo davanti alla cinepresa e trovai sorprendentemente difficile attuarlo nel film, perché mi toccava trasformare Tommy da idea a persona reale - e per me Tommy non era una persona reale, come dicevo prima. Ken Russell? Era un pazzo completo. E il mio impatto con i metodi dell’industria cinematografica fu catastrofico: dovevi alzarti alle sei per essere sul set alle sette di mattina. Un musicista rock si alza alle sei di pomeriggio, semmai, giusto? E i miei primi due giorni di riprese furono terribili. Il primo rimasi immerso nell’acqua per oltre quattro ore e dopo un po’ l’acqua si raffreddò completamente e stavo letteralmente gelando; il secondo lo passai a essere frustato con l’antincendio. E il vecchio Ken sembrava provarci gusto… Dopo due giorni il mio intero corpo era coperto di lividi blu e neri… Allora mi dissi: “Beh, peggio di così proprio non potrà andare….”.
Dal cinema al palco: un momento epico di “Tommy” avvenne quando suonaste “See me, feel me” a Woodstock…
Oh, non credere che ricordi molto di Woodstock (ride)... Al momento di suonare eravamo stravolti. Però mi restano negli occhi quella sensazione e quell’immagine di salire sul palco mentre all’improvviso ecco che sorgeva il sole e illuminava tutta quella gente sotto di noi...
Invece che ricordi hai di una sera a Verona, nel giugno 2007…? Rockol era presente in massa e tra noi ci diciamo che è una notte da dimenticare ma anche una notte da ricordare…
Oddio, che notte tremenda! Sai, per come si era messo il tempo, era veramente pericoloso restare a suonare sul palco, così tentammo di aspettare che la tempesta passasse, e fortunatamente passò. Poi quando le cose si sistemarono, eravamo pronti e al momento di “Who are you?” non so semplicemente dirti dove andò a finire la mia voce. Ma veramente: un attimo prima stavo bene ed ero caldo, un attimo dopo non c’era più. Che devo dire? Meglio viverla una sera così che non provarla. La definirei una vera rock and roll night!
Mentre tu porti in tour “Tommy”, gli Who hanno da poco ripubblicato una versione deluxe di “Quadrophenia”: che te ne pare? Il remaster ha fatto giustizia, la tua voce si sente meglio che non nell’originale?
Non l’ho ascoltata! Com’è?
Ma che risposta furbetta… A me è piaciuto essere immerso nuovamente in un classico, riscoprirlo e trovarci elementi nuovi. E credo che la tua voce ne esca meglio…
Beh, ottimo allora. Io ricordo solo che quando venne pubblicato l’album lo trovai molto diverso da come lo ricordavo suonato in sala d’incisione, come se passando dallo studio al vinile ne fosse uscito molto meno potente.
Che ricordi conservi di Keith Moon e John Entwistle?
Meravigliosi. Con il tempo tendi a ricordare solo le cose belle, le più divertenti, i momenti piacevoli. Ma ripeto: meravigliosi. Erano due persone eccezionali e posso giurarti che ogni volta che sono sul palco e canto i nostri pezzi, loro due sono sempre là con me. Tieni presente che, come cantante, durante i concerti non vedevo molto né Keith è John, ma soprattutto Keith. Eppure sento la loro presenza costantemente al mio fianco.
E che ne è del tuo vecchio progetto del film su Keith Moon?
Ah, la verità è che appena avrò un po’ di tempo dovrò mettermi a scriverlo. In passato ha attraversato molte fasi, ma il progetto di fatto non è mai decollato. Però posso dirti che quando sarà pronto sarà qualcosa che il pubblico forse non si aspetta. Desidero che sia una rappresentazione articolata e complessa perché dovrà parlare di una persona estremamente intensa, molto divertente, geniale, comica e, purtroppo, anche tragica. Keith era un ragazzo buonissimo e un musicista incredibile. Per me era un eroe. Parlare oggi di chi potrà interpretarlo ha poco senso. Molto tempo fa (saranno stati vent’anni, ormai) ne parlai con Robert Downey Jr., trovavo che fosse perfetto per Keith. Ma ora non saprei…
Pete è l’amico di una vita: come sta, vi sentite spesso?
Pete sta bene, grazie, e ci parliamo moltissimo, anche proprio in questi giorni. E sai una cosa? Stiamo parlando proprio di “Quadrophenia”: vorremmo rifarla dal vivo, possibilmente entro la fine dell’anno. Non che abbiamo un’agenda, ma potrebbe succedere tra novembre e dicembre. Posso solo dirti che abbiamo idea di farla diversa da come la riproponemmo nel 1997. Sì, con Pete ci sentiamo continuamente.
Come hai reagito di fronte alle accuse di pedofilia nei suoi confronti?
Il più colossale carico di merda che abbia mai sentito. Quando accadde fui sconcertato, fu devastante. Ma conosco Pete nell’intimo, e quando lo vidi al telegiornale e guardai i suoi occhi mentre raccontava la sua versione dei fatti, seppi immediatamente che non aveva fatto nulla di ciò per cui lo accusavano. Disse che era vero che aveva visitato quei siti, ma con uno scopo e senza scaricare nulla. Gli credo senza dubbio. Non so come qualcuno abbia potuto montare questa cosa contro di lui, forse lo deve a certi suoi atteggiamenti arroganti. Ma su internet certe cose accadono spesso, no?
Roger, chi è il migliore cantante rock di sempre?
Il migliore è sempre quello che ti piace, no…?
Diplomatico… Però puoi dirmi almeno chi è il più grande cantante blues…
Mmmh… Difficile. Se proprio devo dirne uno, allora scelgo Howlin’ Wolf. Ma anche John Lee Hooker.
Quali nuove band ti piacciono?
Guarda, cerco di avere il polso della scena, ma mi è difficile - e quando sono in tour, perdo contatto con tutto il resto. Posso dirti che ho la sensazione che ci sia dell’ottima musica che viene prodotta là fuori, ma personalmente non amando molto internet (la uso solo per le email, in pratica) trovo che sia paradossalmente più difficile scoprirla. Ce n’é moltissima, ma devi cercarla e a me non piace. E mi rendo conto, allo stesso tempo, che la radio non assolve più alla funzione primaria che aveva una volta, non è più il mezzo principale per ascoltare o scoprire buona musica.
Per concludere: da vecchio leone del palco, che ne pensi dei talent show?
Credo che i talent facciano emergere buoni cantanti. Ma credo anche che non scoprano nessuna star. Mai. Se ci fai caso, tutti i cantanti dei talent show sono tecnicamente eccellenti ma terribilmente ordinari. Non prendono rischi. Non si stagliano tra la folla. La mia impressione è che i talent stiano preparando la scena per una rinascita del punk. Mi sembra la tipica situazione nella quale una reazione è matura: presto si avvertirà il bisogno di qualcosa di verace, essenziale, sporco, duro.


(Articolo tratto dal sito: rockol.it del 09 feb 2012)







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