Pubblicato: 09-05-2012

Counting Crows, intervista ad Adam Duritz: 'Cantare cover è liberatorio'


Counting Crows, intervista ad Adam Duritz: 'Cantare cover è liberatorio'

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Ci sono artisti che è meglio non intervistare, perché rovinano la magia delle loro musica. E ci sono artisti che ti parlano a cuore aperto, esattamente come scrivono le loro canzoni. Adam Duritz è uno di questi: la voce e la penna dei Counting Crows ha leggendari sbalzi d'umore - come testimonia chi lo conosce bene. Ma se lo prendi in buona si racconta come sie ti conoscesse da anni.
I Counting Crows rimangono una delle migliori rock band tradizionali in circolazione. Ma per la prima volta, nel nuovo album in uscita il 10 aprile, non parlano attraverso i testi di Duritz: “Underwater sunshine” è un disco di cover, ed arriva 4 anni di distanza da
“Saturday mornings & sunday nights” . Lo si può ascoltare in streaming a questo indirizzo; qua potete leggere la recensione. Dell'album e di altro abbiamo parlato con Adam Duritz, raggiunto al telefono a New York, dove vive da tempo. Gli abbiamo chiesto conto di questa scelta di dedicarsi alle cover, della fatica di non cantare le proprie parole (che invece è stata una liberazione), delle differenze tra il successo degli anni ’90 (quando la band raggiunse il vertice delle classifiche americane con “Mr. Jones”) e oggi. E del suo rapporto con la rete. Su Twitter, dove passa un sacco di tempo, ha scoperto molte cose... Adam era in buona, decisamente.

Underwater sunshine” è il vostro primo disco da band totalmente indipendente, dopo la fine del rapporto con la Universal. Una scelta particolare, anche se fate cover da sempre. Perché proprio adesso? Non sarebbe stato più opportuno fare un disco di canzoni inedite?
E’ qualcosa che volevamo fare da sempre e non avevamo mai avuto il tempo di fare. Questo sembrava il momento giusto. Io, nel frattempo, stavo scrivendo una spettacolo teatrale, e così ho focalizzato la mia scrittura su quel versante.

Come avete scelto le canzoni? Diverse sono canzoni che eseguite da tempo, e che addirittura avevate già inciso come b-side in anni passati...
Le abbiamo scelte tutte allo stesso modo: sono canzoni che amiamo. Abbiamo inciso canzoni come “Four white stallions”, che suoniamo da tempo e che è dei Tender Mercies, una band in cui militano due di noi. Ma non abbiamo inciso la loro “Wise blood”, e anche quella è da tempo nel nostro repertorio. Non c’è stata strategia nello scegliere le cover: ho chiesto a tutti di portare delle canzoni, le abbiamo provate. Qualcuna sembrava un’ottima idea, ma mentre la registravamo è venuta orribile. Altre sono venute bene subito.

Qualche tempo fa, una vostra cover di "Big yellow taxi" di Joni Micthell ebbe molto successo. Nella scaletta del disco ci sono invece poche canzoni e artisti noti. Dylan, i Big Star, di cui avete rifatto “Ballad of El Goodoo”. Una scelta voluta? Anche qua non c’è stata strategia, anche se la tendenza nel fare cover è sempre quella di rendere onore a gemme poco conosciute. La fama poi è relativa: “You ain’t goin’ nowhere” non è certo una delle canzoni più famose di Dylan. “Oh la la” è stata una hit con i Faces, “Amie” fu un successo ma molto tempo fa per i Pure Praire League. I Big Star sono conosciuti, ma soprattutto dagli appassionati..
Avevamo provato un brano di Joe Jackson, “It’s different for girls” e uno degli Stereophonics, “Local boy in the photograph” che furono entrambi delle hit. La seconca non siamo riusciti a finirla, la prima l’abbiamo scartata perché era l’unica canzone che alla fine non sembrava nostra, ma una cover.

Ci sono altre canzoni che avresto voluto fare e che sono rimaste fuori?
Oltre a quella di Stereophonics e quella di Joe Jackson, abbiamo provato una canzone di James Maddock, “Mister universe”, ma che ci è venuta orribilmente.. E poi abbiamo anche “You might think” dei Cars, che avevo inciso da solo per un EP di cover che ho messo in rete per San Valentino l’anno scorso. Tutti amavano quel pezzo.... E’ strano come certe canzoni ti vengano al primo colpo, magari anche stravolgendo l’originale. E come invece da due gran canzoni come quella dei Cars e quella di James Maddock abbiamo tirato fuori due pezzi di merda putrida...

Avete lavorato molto per far sembrare vostre le canzoni del disco?
Abbiamo lavorato duro, ma in tempi molti ristretti: una sessione di una settimana nell’aprile dello scorso anno, e due settimane a giugno. Un totale di poco più di dieci giorni di studio, molto intensi, in mezzo ad altre cose che stavamo facendo: da qui il sottotitolo: “Quello che abbiamo fatto nelle nostre vacanze estive”.

Una parte fondamentale dei Counting Crows è il tuo modo personale di raccontare storie. Ti è mancato il cantare le tue parole? Per niente! E’ stato fantastico. Non è che non voglia farlo, adoro fare musica. Ma ho passato 20 anni a mettermi a nudo cantando, mettendo in piazza la mia vita e mettendo sempre le mie budella sul piatto. Non che questa volta non abbiamo lavorato duro, in studio - lo facciamo sempre. Ma cantare storie che non hanno a che fare con la mia vita personale ha due vantaggi: non mi esporrà a recensioni che parlano di me. E soprattutto ha reso il disco più divertente. Continuo a ricevere telefonate di amici che mi dicono: “Sai, mi è proprio piaciuto il disco”. E io rispondo: “Certo, grazie”. E loro continuano “No, non hai capito: mi sono proprio divertito ad ascoltarlo”, sottolineando la parola “enjoy” e ripetendola tre o quattro volte.
Insomma: la vita sembra essere più divertente quando le mie menate sono fuori dall’inquadratura.

Così è stato liberatorio cantare canzoni altrui...
Assolutamente: Sono stanco di autoanalizzarmi. La mia carriera musicale è stata una seduta di analisi lunga vent’anni! Non fraintendetemi: mi piace ancora scrivere, e dal vivo non potrei fare a meno di cantare le nostre canzoni. Ma prendere una pausa è stato salutare. In più, lo spettacolo a cui sto lavorando prevede che io scriva canzoni per i personaggi, quindi mi sto mettendo alla prova a scrivere per voci altrui, soprattutto femminili, ed è un processo interessante.

I Counting Crows sono stati una band di enorme successo a metà degli anni ’90. Ora avete scelto di non avere neanche una casa discografica, di fare tutto da soli. Vi manca quel periodo e quel successo?
Sinceramente: mi manca come mi mancano in giorni in cui ci si faceva trapanare i denti senza anestesia. Al South By South West di Austin fa abbiamo suonato di fronte a 25.000 persone - il nostro massimo storico. I preordini del disco sono ottimi. Alle radio abbiamo dato sette canzoni, senza indicazioni su quale fosse il singolo, e “Untitled love song” è stata la canzone più aggiunta alle playlist radiofoniche per tre settimane di fila
Il punto è che era diventato impossibile sia pensare di avere ancora quel successo e sia di lavorare ancora con una casa discografica. Non credo che siano più in grado di vendere dischi. Volevo libertà di iniziativa, fare cose diverse, soprat. Io ero già entusiasta della rete negli anni ’90. Ho visto case discografiche rifiutarsi di usare per 15 anni la più fantastica bacheca per comunicare con la gente.


Counting Crows - Mr. Jones on MUZU.TV



Tu invece usi parecchio la rete. L’anno scorso hai inciso e regalato un EP di cover, per San Valentino, facendo tutto in diretta su Twitter e Soundcloud.
Quello ero io che mi sono guardato allo specchio e mi sono detto: tra poco è San Valentino. Mi sono appena mollato con la mia ragazza. Cosa voglio fare? Voglio stare a lamentarmi di essere single? No: ogni giorno imparerò una canzone, la suonerò e la regalerò. Questo sarà il mio regalo di San Valentino. E’ bello solo pesanre di poterlo fare, ed è stato bello comunicare in diretta con i fan, a cui ho chiesto una copertina per l’EP. E poi l’abbiamo rifatto anche per “Underwater sunshine”, facendo un contest in rete per la copertina. E’ la stessa lezione che ho imparato negli anni ’90: comunicare con i tuoi fan. Solo che oggi ci sono strumenti più potenti per farlo.

Su Twitter hai quasi un milione e mezzo di follower. Ti si vede spesso parlare di te stesso, come nelle canzoni. Non ti senti esposto?
Twitter non ha la stessa profondità di un blog, ed è perfetto per il marketing. Ma lì ho conosciuto molta gente: Ryan Spalding, un blogger con cui ho messo in piedi l’Outlaw Roadshow, uno spettacolo e una compilation di band emergenti. Ho persino conosciuto la mia ultima ragazza, su Twitter. Mi ha scritto una cantante, l’ho sentita, l’ho invitata ad un nostro concerto, ha cantato con noi e poi siamo a finiti a vivere assieme...


(Articolo tratto dal sito: rockol.it del 04 apr 2012)







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